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Il Blog di Andrea Asnaghi

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Postilla » Lavoro » Il Blog di Andrea Asnaghi » Rapporto di lavoro » 30 anni fa, Solidarnosc.

11 agosto 2010

30 anni fa, Solidarnosc.

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Nell’agosto di trent’anni fa, dapprima a Danzica e poi diffondendosi rapidamente  in tutta la Polonia, nasceva il movimento, o meglio la confederazione sindacale, di Solidarnosc. 
I moti spontanei nati dalla opposizione popolare al regime comunista si organizzarono in una protesta ed una riflessione sempre più diffusa, assurgendo ben presto a movimento nazionale con un’eco ben più ampia dei confini polacchi.
Represso brutalmente (ma non certo domato) nel 1981, poi arrivato addirittura (verso la fine degli anni 80) a conquistare la guida del paese attraverso il suo leader carismatico, Lech Walesa, il movimento visse come una meteora una stagione (di oltre un decennio) intensa, finendo poi per attenuarsi, quantomeno nella carica ideale e nella diffusione popolare.

Chi ha vissuto quegli anni, come me, lesse gli ideali di quel movimento (pesantemente anticipatore di un vasto movimento culturale  che avrebbe portato alla caduta del Muro di Berlino ed alla  fine della guerra fredda e dell’egemonia culturale societica nell’Europa dell’Est ) con tutto il sollievo e la speranza  che derivavano dalla bellezza e dalla concretezza di cui Solidarnosc era portatore.
Non è questo il luogo in cui intraprendere una fine analisi storico-politica, nè tantomeno il fine di queste poche righe vorrebbe essere quello di una inutile “celebrazione”.  
Mi interessa condividere con voi alcuni idee che ricavai da quella esperienza, che personalmente per me culminò in un incontro casuale, tanto fuggevole quanto intenso, dei membri di una  delegazione del sindacato polacco (fra cui lo stesso Walesa) venuti in Italia nel gennaio del 1981, in visita alle popolazioni avellinesi colpite dal terremoto.

In Italia si era alla fine  di un decennio di forti scontri ideologici – i famosi ’70, gli  “anni di piombo”  – culminati nella ideologia della lotta armata e del terrorismo. Era pertanto estremamente interessante, era una forte e vivace apertura culturale, scoprire che si poteva parlare di diritti dei lavoratori, di giustizia sociale, di sindacato, senza necessariamente passare per il bagaglio (il … retaggio ?)  ideologico dominante (allora, forse anche oggi, fortemente condizionante).
Questa idea di fondo era ancora più forte, a mio avviso, della prova provata del fallimento dellesperienza politica del socialismo reale,  che di lì a poco si  sarebbe irrimediabilmente sbriciolata (ma le cui crepe cominciavano ad essere ben evidenti, ancorchè spesso occultate malamente).
Basti pensare, in ogni caso, che l’esperienza polacca avrebbe contribuito non poco nella costruzione della vasta riflessione e sensibilizzazione sui temi del lavoro e della sua dimensione etica che avrebbe portato, un anno dopo, alla realizzazione dell’enciclica “Laborem exercens” di Giovanni Paolo II (anch’egli polacco, come ricorderà chi legge) fino ad arrivare ai giorni nostri (la recente enciclica “Caritas in veritate” dell’attuale Pontefice , sul lavoro riprende totalmente  i temi della “Laborem”).

Senza alcuna pretesa esaustiva, quale è il nucleo dell’esperienza di Solidarnosc e perchè può essere utile riprenderla oggi?
L’idea fondamentale del sindacato polacco è stata quella della “solidarietà delle coscienze” e del “lavoro come impulso etico e come espressione dell’uomo“. 
Attraverso questi concetti si focalizza che al centro della riflessione etico-sociale (anche nella sua dimensione più prettamente economica) c’è l’uomo.
L’uomo, prima ancora di essere destinatario di diritti (e noi sappiamo bene quanta importanza abbia la riflessione giuslavoristica verso un certo nucleo di questi diritti), è il portatore di un senso e di una responsabilità, che si esplicano in molta parte del suo tempo e della sua attività proprio nel lavoro.
Staccare il lavoro dall’uomo – riducendo l’uomo ad un entità economica,  ad un fattore della produzione ma anche ad una “classe” o ad un mero coacervo di esigenze – significa compiere la grossa ingiustizia di privare  l’uomo del significato del suo lavoro, che è la partecipazione al bene comune ed al suo progresso nella storia, attraverso cui le generazioni ed i valori si parlano e si perpetuano.

Aggiungerei molto altro, senza riuscire a togliere, a me per primo, il senso di ingiustizia di una riduzione così brutale, in poche parole, di una visione ricca, preziosa ed articolata.  Ma voglio riportare all’attuale alcuni principi:
1. se il senso del lavoro è un dialogo/confronto  fra uomini per la costruzione di un significato comune, allora la riflessione sul lavoro finisce di essere una riflessione fra “uomini contro” per diventare un confronto di “uomini per” (vorrei qui ricordare  il metodo di azione  assolutamente non-violento di Solidarnosc, ad esempio). 
Non c’è più una pura contrapposizione (sia pure “dialettica”) fra i diritti (e le esigenze) dell’impresa e quelli del lavoratore (aggiungerei: ancor meno fra un’ipotetica destra ed una altrettanto ipotetica sinistra…), perchè tutti fanno parte di un disegno di costruzione comune. 
In questa prospettiva ciò che fa il bene del lavoratore è – prima ancora che obbligatorio – utile, positivo, concreto, possibile per una azienda;  e, reciprocamente,  ciò che costruisce, consapevolmente,  il lavoro costruisce colui che vi lavora.
2. in tal modo, si supera un concetto (purtroppo ancora attuale) di “dirittismo”, per cui si parla  di lavoro solo in senso “difensivistico e ristoratorio”, facendo strada ai concetti di responsabilità e di partecipazione - che implicano la ricerca di soluzioni, della strada migliore (che a volte è anche semplicemente quella con meno controindicazioni) senza la negazione della fatica e del sacrifico, a cui il lavoro  è intrinsecamente connesso, ma anche  della dignità di chi lavora.
3. il lavoro non è che una delle espressioni con cui l’eticità dell’uomo si manifesta, ed è intrinsecamente ed organicamente collegato agli altre dimensioni ed alle altre manifestazioni sociali e culturali dell’uomo: la famiglia, i valori, la tradizione, l’arte, la cultura, la salute, l’ambiente. Dimensioni con cui il lavoro si rapporto, e che non può negare o trascurare, con cui si deve integrare.

Conosco l’obiezione:  gran belle parole ma … domani mattina (davanti al primo problema pratico) che si fa  ?

C’è una dimensione etica che dobbiamo recuperare, non solo per parlare di lavoro ma in genere nella società.
Non credo sia un processo breve ed indolore,  tuttavia credo che sia ancora possibile, sia pure  con una grande inversione dell’attuale  tendenza. In fondo, i concetti di solidarietà e di responsabilità sono ancora parte della nostra cultura e devono diventare le linee-guida dell’agire.
Trent’anni fa – malgrado anche allora vi fosse la “solita”  impossibilità di cambiare il mondo – un movimento, “senza rompere un vetro” resistette ad una superpotenza e ad un blocco mondiale consolidato ed iniziò a cambiare la propria società (ed in prospettiva sbriciolò quel blocco). 
Oggi il cambiamento richiesto è più sottile, perchè implica rivedere i valori personali e collettivi e “le priorità”  con cui facciamo delle scelte, come professionisti, imprenditori, lavoratori, cittadini …

Ma è possibile.  Ed è l’unica strada per liberarsi di blocchi ideologici e costruire un futuro presente più umano, per ricominciare a crescere oppure  anche solo “semplicemente per respirare”  (come dice una vecchia e  bella canzone di Fossati).

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12 Commenti a “30 anni fa, Solidarnosc.”

  1. Dragan Bosnjak scrive:
    Scritto il 11-8-2010 alle ore 08:13

    Bravo Andrea!
    Bellissimo articolo che condivido pienamente. Quello che vediamo oggi nelle nostre aziende, e anche nella vita politica, è una totale negazione dell’uomo, che diventa uno strumento nelle mani di chi ha il potere, senza possibilità di creare la propria maestria nel lavoro, di essere rispettato per quello che fa, la propria dignità.
    All’uomo deve essere permesso di apprendere continuamente il proprio mestiere, di svilupparlo, di lasciarlo ai suoi successori nelle condizioni migliori rispetto a quelle che ha trovato lui. Ma spesso questa cosa gli viene negata nelle aziende, perché bisogna sempre e comunque mantenere “lo status quo”.
    Nella politica è anche peggio. Non solo non si va avanti da un Governo all’altro, ma addirittura si va indietro… Litigando tra la destra e la sinistra (o anche tra nord e sud volendo…) non andiamo da nessuna parte. Senza una direzione comune per il paese intero (e non solo per le partite della nazionale di calcio…) che viene seguita da qualsivoglia Governo al potere, potremo solo raggiungere i nostri amici argentini, greci e tra poco portoghesi e spagnoli…

  2. Andrea Asnaghi scrive:
    Scritto il 11-8-2010 alle ore 14:36

    Grazie per il tuo intervento, Dragan, che condivido.
    Le belle idee devono, e possono, diventare pratica quotidiana soprattutto se si esce dalla pesante idelogia (da una punto di vista) e da una mera logica del profitto (dall’altro).

    Nel lavoro l’uomo si afferma e si realizza, nei casi più fortunati entro una dimensione propositiva e creativa, ma in ogni caso anche solo come partecipazione alla vita sociale e come dignità del proprio libero mantenimento, della propria indipendenza.

    E’ un tema delicato, che la parola “responsabilità” ben interpreta: ed in questo senso, non è solo un problema di economia allo sfacelo, perchè anche nei Paesi più sviluppati e meglio attrezzati è in atto una crisi di valore che rende l’uomo oggetto, cosicchè anche quando “formalmente” non è schiavo di nessuno non è libero e non vive una vita piena.

    Questo si tramuta anche in un atteggiamento verso il lavoro: stiamo creando tanti “calciatori e veline”, (con tutto il rispetto degli uni e delle altre) faccendieri e figurine da reality, ma pochi disposti ad affrontare con serietà e alacrità i propri doveri, sia come lavoratori che come imprenditori.
    Di fatto, si lavora per come si vive … e forse il mutamento deve davvero partire dal profondo.

  3. Pierluigi Rausei scrive:
    Scritto il 18-8-2010 alle ore 19:15

    Grazie mitico Andrea per il tuo ricordo che è un richiamo alla coscienza e all’intelligenza sulle priorità e sui valori di chi (come noi) dà (o cerca di dare) valore al Lavoro… ogni giorno… fianco al fianco con quanti operano nel mondo del lavoro (con coraggio e fatica). Un abbraccio! pier

  4. Paolo Stern scrive:
    Scritto il 23-8-2010 alle ore 10:44

    che dire … una riflessione condivisibile dalla prima all’ultima parola. ricordo con passione e commozione (forse anche perchè legati all’età giovanile) le raccolte fondi per Solidarnosc. un vero anelito di libertà.
    cosa rimane di quell’esperienza? perchè tanti errori successivi posti in essere spesso dagli stessi personaggi che furono capaci di guidare un popolo? i sindacati italiani hanno avuto mai la capacità di scelte così drastiche e coraggiose? quanto tengono le valutazioni teoriche quando dobbiamo confrontarci in una competizione globale in cui le regole del gioco sono spesso maledettamente “bastarde” ma difficilmente mutabili? domande complesse, molto complesse. così difficili da rendere spesso più semplice la rinuncia al ragionamento con conseguente fuga nella prassi produttiva (vivo per fare) o al contrario nella lotta al mondo intero (gli anni ricordati da andrea sono pieni di utopici, inutilii, devastanti slanci giovanili finiti male).
    gli uomini e le donne di buona vontà devono però continuare a ragionare saper coniugare il fare con le sue finalità, trovare equilibri sempre nuovi. questo, piaccia o meno, è il mondo in cui ci è dato di vivere.

    un forte abbraccio ad andrea ed approfitto per un caro saluto a pierlugi.

    ps
    mi permetterei di consigliarvi un libro di prossima uscita (sarà presentato a Rimini in questi giorni) Danzica 1980 – Solidarnosc (AAVV) edizioni Itaca.

  5. Paolo Stern scrive:
    Scritto il 27-8-2010 alle ore 15:12

    ringraziando ancora andrea per l’ospitalità segnalo un interessante articolo sull’argomento del post:
    http://www.zenit.org/article-23444?l=italian

  6. Andrea Asnaghi scrive:
    Scritto il 29-8-2010 alle ore 10:01

    Carissimo Pier(luigi),
    ricambio l’abbraccio e il tuo passaggio qui mi è particolarmente lieto.
    Istintivamente mi verrebeb da dirti che non credo che chi, come te, vive con dedizione e profondità di intenti la propria vita e la professione nel mondo del lavoro abbia bisogno di alcun … “richiamo”.

    L’uomo (le c.d. “risorse umane”) non è semplicemente la “materia” del nostro lavoro ma ne è lo SCOPO ultimo, è un mezzo ma soprattutto è un fine, anzi IL fine.

    Questo comporta che qualsiasi discorso sul lavoro nasce dimezzato ed ingiusto se non è anzitutto un discorso sull’uomo e per l’uomo.

    E’ un principio filosofico su cui credo ci sia da combattere una battaglia, quella di chi non crede ancora (o non crede più) che tutto si risolva in una lotta di classi, sterile e velleitaria, e/o in una rielaborazione socio-economica dei mezzi di potere e di produzione.

    Ed è anche un principio etico su cui – forse hai ragione tu – è giusto fare un … ripasso dei fondamentali.

  7. Andrea Asnaghi scrive:
    Scritto il 29-8-2010 alle ore 10:13

    Sono io che ringrazio te, carissimo Paolo, per le preziose segnalazioni e per le domande che hai voluto porre.
    Mi permetto di riportarne una particolarmente provocante: quanto tengono le valutazioni teoriche quando dobbiamo confrontarci in una competizione globale in cui le regole del gioco sono spesso maledettamente “bastarde” ma difficilmente mutabili?
    La cosa più affascinante di Solidarnosc è che è stata – più che un’idea astratta o un’ideologia -una vera e propria esperienza, per quanto piccola, fugace e travolta da “rivoluzioni planetarie”. E un’esperienza è come un gesto di solidarietà in una metropoli, è come un abbraccio in una folla anonima: un piccolo punto che però è ineliminabile e costruisce intorno a sè.
    Il significato “politico” di Solidarnosc si innesta in un contesto in cui quel movimento ha avuto un valore profetico e paradigmatico, ma rimane pur sempre la storia di milioni di persone che han marciato, pregato, vissuto, solidarizzato mostrando per un attimo una qualità della vita ed una dimensione della solidarietà come non se ne erano mai viste prima.

    Infine, caro Paolo, la memoria forse ci riporta appassionatamente a quando avevamo “qualche” anno di meno, ma la capacità di commuoversi ed appassionarsi non si è affievolita (forse si è solo depurata di qualche impeto ed arricchita di qualche esperienza): altrimenti , che ci faremmo qua ? :-)

  8. Paolo Stern scrive:
    Scritto il 31-8-2010 alle ore 14:18

    andrea visto che i tuoi ragionamenti sono sempre puntuali e visto l’assonzanza delle tematiche trattate, proviamo un collegamento tra post?
    mi spiego meglio. la contestazione di danzica (il tuo post) nasce dalla reazione “di popolo” a licenziamenti, ora in italia 3 licenziamenti, quelli di melfi (il mio post), sono al centro del dibattito: ci possono essere assonanze? sono contesti diversi? e se si quali, scondo te gli elementi di distinzione? …
    ti sarei grato se la pubblicassi la tua risposta, se credi ovviamente, in entrambi i post per creare questo ponte “virtuale”.
    quanto al tempo che passa … la tua considerazione è proprio giusta. nel mio caso però la differenza tra il 1980 ed oggi sta anche in un milione di capelli in meno!

  9. Andrea Asnaghi scrive:
    Scritto il 31-8-2010 alle ore 15:27

    Caro Paolo, la risposta alla tua domanda è difficile e complessa, anche se istintivamente mi verrebbe da dire: “non scherziamo”.
    In Polonia nel 1980 (non nel 1700…) le richieste erano: libertà sindacale, di parola, di culto e di stampa. Credo che nessuno, anche animato dal più retrivo credo ideologico, possa oggi negare la realtà di profonda DITTATURA in cui versavano le popolazioni dell’est europeo fino alla caduta del Muro.

    Da noi queste libertà ci sono, e mi pare che si tenda spesso ad abusarne.

    La nostra libertà sindacale, volutamente e reiteratamente – a mio parere, vive in un’assenza di regole che permettono:
    – al sindacato (ad un certo modo di fare il sindacato) di fare il bello ed il cattivo tempo;
    – al padronato ( ad un certo modo di intendere l’imprenditorialità) di tentare manovre del tipo “colpirne uno per educarne 100″, oppure di occultare le regole ed andare avanti per la sua strada;
    – ai giudici del lavoro (a certi giudicanti ideologizzati, con buona pace di chi vi vede una forma di garanzia) di inventarsi formule astruse per inseguire diritti astratti, che spesso fanno danni concretissimi.
    (Per quanto possa sembrare paradossale, questi tre atteggiamenti, invece di confliggere finiscono per andare perfettamente “a braccetto”: perchè ciascuno giustifica l’esistenza – ingiusta – degli altri).

    Anche la discussione Fiat vs Cgil mi ha un po’ stancato e mi sembra che molti evitino accuratamente di parlare terra-terra e/o “pane al pane, vino al vino”: così tutti sono contenti/scontenti e (soprattutto) ognuno prosegue per la sua strada .

    Confesso che non conosco appieno tutti i meandri della vicenda, e quindi evito giudizi definitivi: ma mi sembra che il blocco di una intera produzione da parte di POCHI o ha una gravissima giustificazione o si (s)qualifica da solo (PS non è che non ho mai visto farlo, peraltro).

    Il dibattito su un fatto si è spostato imemdiatamente su un aspetto ideologico (la libertà sindacale): ammesso (e non concesso, ripeto, non ho tutti i dati per poterlo affermare) che quella dei tre sindacalisti fosse una mera prepotenza ed un atto,prevaricatore, di forza, basta avergli dato la patente di “atto sindacale” per coprire le responsabilità individuali ?
    Così si passa “allegramente” da un 18 a un 28 (non sono numeri del lotto o di un tram, ma gli articoli dello Statuto dei Lavoratori) ed il gioco è fatto …

    La responsabilità, sociale ed individuale, non conta più; ovvio che poi si faccia fatica ad intravederla anche dall’altra parte, sino alla deriva della “626 come lusso”, che è solo una frase infelice ed andrebbe contestualizzata (Tremonti è troppo intelligente ed accorto per non aver voluto dire altro) ma che è anche sintomatica.

    Sai quanti altri ponti si potrebbero lanciare da qui in poi .. ad esempio con il mio (seppur umile e modesto) post sugli Enti Bilaterali, in cui dopo 111 interventi nessuno ammette seriamente la necessità di una regolamentazione coerente della attività sindacale …

    A me sembra che viviamo in un contesto di:
    – irresponsabilità;
    – formalità e politically correct;
    – fatti propri a go-go (per dirla forbitamente: individualismo e business esasperato), a cui si contrappone
    – una sterile vetero-idelogia.

    Ecco, da questo punto di vista, mi sembra che Solidarnosc fosse all’opposto di tutto ciò (così come anche il mio personalissimo desiderio umano e professionale).

  10. Enrico Balboni scrive:
    Scritto il 9-9-2010 alle ore 11:30

    Ho molto apprezzato questo scambio di post. Ho 35 anni e l’argomento trattato è un vago ricordo di infanzia, di nomi pronunciati con difficoltà dai nonni di un piccolo paese di campagna (su tutti Lech Walesa).Solo in tempi più recenti ho avuto occasione di approfondire quel particolare momento / movimento storico, indubbiamente molto affascinante e suggestivo, dove si sono fatte valere delle IDEE e non della mera IDEOLOGIA, parole (idee ideologie) che al di là della comune radice semantica paiono oggi veramente in antitesi.
    Mi pare che ogni qual volta ci si trovi di fronte ad un tavolo dove intervengono importanti attori politico- sociali – istituzionali (come a rimini recentemente) vi sia un Grande sbandieramento di ideologia che svela, tra le pieghe, grande carenza di idee. Come dire si avverte la necessità di un cambiamento ma nessuno ha forse una vera “chiave di volta” (o forse non ne può sopportare il prezzo) e così nel dubbio si rimane fermi ciascuno sui propri confini e il “dialogo” che ne deriva è sempre e soltanto un “giro di frasi ad effetto” con il retro gusto del dejà vu o meglio del già sentito.

  11. Andrea Asnaghi scrive:
    Scritto il 9-9-2010 alle ore 12:45

    Caro Enrico, benvenuto e grazie per il tuo intervento.
    Seguendo quanto tu scrivi ed io condivido, dietro l’ideologia ci sta tutta la fallacia del pensiero umano fine a se stesso (con le sue velleità ed incapacità a comprendere pienamente la realtà – e con le deformazioni e strumentalizzazioni che a volte ne conseguono) mentre dietro l’idea ci sta un’esperienza, con il relativo carico positivo di valori e di vita (anche sofferti).
    Inutile dire la supremazia, sia pratica che intellettuale,e la forza di affascinazione e di aggregazione(oltre che di comprensione) dell’idea sull’ideologia.

    Siamo in un momento di profonda crisi (valoriale prima che economica: e chi, ad esempio, prende spocchiosamente in giro il Papa quando ai giovani predica che “il posto fisso è importante ma non è tutto” secondo me non coglie in senso profondo di questa crisi e le vie per uscirne).
    Oltre a non esserci in giro una chiave di volta, c’è poco terreno comune e poca voglia di costruire davvero; perchè da uomini dovremmo riconoscere che il cambiamento – qualsiasi cambiamento, ma specialmente quello più profondo – non parte “da domani” e “dagli altri”, ma parte da qui ed ora e da ciò che si può fare subito: ovvio, questo costa sacrifico e responsabilità (e non appena si pronunciano queste parole, la sordità diventa un’epidemia…).

    Far scorrere e condividere le idee buone – come molto modestamente cerchiamo di fare qui, sull’ideale e sul pratico – è un piccolo tentativo di creare un terreno ed una rete comune.
    Chissà che gli uomini di buona volontà non trovino il coraggio e l’opportunità (come i lucidi pazzi di Solidarnosc) di superare quei confini che tu ricordi, vera e propria tenaglia dell’agire e del pensare.

  12. tettulo scrive:
    Scritto il 15-5-2014 alle ore 09:12

    calamaro

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